C’è un silenzio irreale.

È l’ultima domenica di un’estate della quale ricorderemo precisamente i contorni: era il 2020, portavamo le mascherine, il Covid ci aveva cambiato la vita… Ma oggi non splende il sole.
L’aria é grigia, e le microscopiche gocce di quell’umidità che appesantisce gli abiti, riescono ad attutire i rumori, a smorzare le parole di chi ti passa a fianco, a spegnere anche il più piccolo suono.

Amo camminare a Camogli quando é così.Quando i pochi turisti rimasti vorrebbero essere tristi perché non si può prendere la tintarella, ma restano invece affascinati da un’atmosfera che non riescono a catalogare, a definire, a raccontare nei selfie e nei messaggi vocali.

Io sorrido.
Seduto a questo tavolo di legno e ottone che vorrebbe farti sentire su un veliero d’altri tempi, osservo gli sguardi stupiti delle persone in balia del nulla.Non c’è un alito di vento.Non c’è il sole.Fa caldo.Nulla é convenzionale.Ma ci sono luoghi che riescono ad essere straordinari anche quando non vorresti.

Ps: oggi mio papà avrebbe compiuto gli anni. Questo scritto lo dedico a lui.

L’esempio dei nostri ragazzi

Parlo tutti i giorni con mio figlio. Quando è da sua mamma usiamo skype, questa settimana fortunatamente è con me e così possiamo anche abbracciarci ogni tanto. Anche se lui non vorrebbe, perché le regole dicono che non si deve fare. E lui è ligio, come tutti i suoi amici, come tutti i ragazzi.

Ha 18 anni.
Quell’età che tutti invidiamo.

Lo guardo e penso che nel suo cuore starà scalpitando perché vorrà uscire, incontrare gli amici, andare al mare, divertirsi. Invece aspetta. Pazientemente. Fa quello che gli hanno detto di fare per sconfiggere il Virus. Come tutti i ragazzi. Come tutti quei ragazzi che non hanno voglia di studiare, che sono irrispettosi, maleducati, che passano le giornate al telefonino o alla playstation, che si vestono con i pantaloni strappati, che fanno tardi alla sera, che sono viziati, che avrebbero bisogno di fare il militare e forse anche una guerra per “non avere grilli per la testa”.

Ed ora la loro guerra ce l’hanno.
E ci stanno insegnando come combatterla.

Quando esco per fare la spesa mi guardo intorno. La città non è completamente deserta. Conto sempre qualche decina di persone. Ma non c’è un ragazzo. Mai. Perché loro seguono le regole e se gli hanno detto che non si deve uscire, loro non lo fanno. E quando io devo andare al supermercato, mi controlla la mascherina, mi ricorda di mettermi i guanti e mi chiede se davvero è necessario, se non posso rimandare perché non si deve aiutare il Virus a distruggerci.

Lui ha già imparato.
Io no.

Lui, come tutti i suoi amici, ha già trovato come sopravvivere. Sa usare la tecnologia, sa mantenere le relazioni con quel telefonino che tutti i giorni minaccio di buttare dalla finestra, sa fare lezione online, sa chiudersi nella sua stanza e studiare quando serve. Si è anche fatto crescere la barba, una di quelle barbe acerbe che rendono il suo volto ancora più giovane di qualche settimana fa. Lui sa vivere lo stesso, anche se non può uscire. E in questa settimana lo sta insegnando anche a me, con la sua preoccupazione, con la sua paura per il futuro, con il suo timore per non sapere che cosa accadrà tra sei mesi. Ma lui ha già imparato ad adattarsi, a seguire le regole e modificare i propri comportamenti in base a quello che sta succedendo. E’ diventato resiliente, per usare una parola molto di moda. Ed io, che questa settimana ho la fortuna di averlo tutti i giorni davanti a me, sto imparando da lui.

Grazie figlio mio.
Grazie a tutti i ragazzi come te.
Abbiamo molto da imparare da voi.

Da Wuhan Milano ci sono 8.648 chilometri: una distanza maggiore del raggio della terra. Tutte le volte che sono stato in Cina ho sempre avuto la percezione di questa distanza, di come il popolo italiano e quello cinese avessero caratteristiche non paragonabili uno con l’altro. In fondo anche in queste settimane ho continuato a pensarlo, come se la guerra contro questo Virus potesse essere combattuta autonomamente. Poi ho guardato queste due foto. Sono le immagini di due infermiere dopo essersi tolte le mascherine e lo schermo trasparente che portavano davanti al viso mentre lavoravano. A Milano e a Wuhan. Le piaghe dei loro volti sono identiche, i loro volti raccontano dei turni massacranti, della loro dedizione totale, del loro impegno senza sosta nel tentativo di salvare vite umane. Hanno entrambe trascorso ore ed ore senza potersi toccare il viso, senza andare in bagno, senza mai distrarsi un momento per non rischiare loro stesse di essere infettate.Ma la cosa che spiegano meglio queste due immagini, è che in fondo quelle migliaia di chilometri sono solo un numero. Queste due immagini ci raccontano che di fronte ad una battaglia così importante non esistono confini, non esistono differenze, non esistono culture. Esiste solo il genere umano e una guerra comune da vincere tutti insieme. Non dimentichiamocelo quando sarà passato il Corona Virus.

Ma che cosa deve succedere affinchè una sicura vittima di femminicidio venga protetta adeguatamente?

“…le donne le preferisco dell’Est; loro non creano problemi e io le tratto come mi pare…”

Così parlava della sua donna Francesco Baingio Douglas Fadda, di soprannome Big Jim perché il fisico era la sua passione. Infatti sabato Big Jim ha trattato Zdenka Krejcikova come pareva a lui.
Dopo averla picchiata e umiliata, come aveva già fatto un milione di volte, l’ha uccisa. A coltellate. Davanti alle sue due bambine di undici anni che porteranno per sempre negli occhi l’immagine del coltello che trafigge la loro mamma.
Erano in casa, a Sorso, in Provincia di Sassari. L’uomo ha iniziato a picchiarla sempre più violentemente e così lei, per salvarsi, è fuggita con le sue figlie in un bar sotto casa. Ma non ce l’ha fatta. Lui l’ha raggiunta e le ha piantato un coltello da cucina nel cuore e si è portato via le due bambine.

Poi l’hanno inseguito, l’hanno preso. Ma volete sapere una cosa? A me non me ne frega niente. Intanto lei è morta e non mi rallegra il fatto che lui andrà in carcere, magari per una decina d’anni perché gli daranno tutte le attenuanti possibili.

Tutti lo sapevano che Big Jim trattava così Zdenka Krejcikova, tutti sapevano che prima o poi l’avrebbe ammazzata. Lui si vantava di essere un bruto, un violento. Infatti un mese fa gli avevano anche impedito di avvicinarsi a lei. Credendo che lui avrebbe obbedito.

Cosa bisogna fare per proteggere le donne da questi esseri? E’ evidente che le leggi esistenti non tutelano le donne che subiscono queste violenze. E’ evidente che un provvedimento che dica ad un animale come questo che non si può avvicinare alla donna che ha sempre picchiato, non verrà rispettato. E infatti le donne uccise da uomini violenti sono all’ordine del giorno.

E quindi? Che cosa aspettiamo a fare qualcosa DI SERIO per proteggere le donne?

roberto silvestri

La democrazia é difficile. E crederci lo é ancora di più. Io penso che chi ha ammazzato quel carabiniere sia un delinquente, un farabutto. Ma credo che lo stato sia qualcosa che sta al di sopra di lui. Non mi dispiace vedere l’assassino (…in realtà l’amico dell’assassino), bendato e legato. Sinceramente non me ne frega niente, mi preoccupo molto di più di tante altre persone che stanno male veramente. Invece mi dispiace vedere che i Carabinieri facciano una cosa sbagliata. Mi dispiace vedere che quei poveri ragazzi, alimentati da un odio colpevolmente dilagante, abbiamo ceduto alla becera ostentazione di un’immagine che non ha nulla di eroico. Che non ha nulla di edificante. E lo hanno fatto loro malgrado. I carabinieri sono i tutori dello stato. Sono coloro che lo proteggono, sono coloro che ne difendono i principi e che lo tutelano anche da chi vorrebbe trasformare la nostra costituzione in carta straccia. Che quell’americano fighetto sia un delinquente non ci sono dubbi. Andrá in galera come é giusto che sia e come deciderà un tribunale del nostro Stato. Ma io vorrei che i nostri Carabinieri continuassero a svolgere il proprio ruolo nel rispetto delle leggi come hanno sempre fatto, che continuassero a seguire quelle leggi come loro unico principio di comportamento, che non venissero istigati ad essere barbari e incivili come vorrebbe qualche politico di oggi per puro tornaconto personale. Rispettiamo i Carabinieri, rispettiamo la Costituzione.

roberto silvestri

Deborah aveva organizzato un Karaoke sulla spiaggia di Savona. Una festa di fine luglio, come tante. Lui è entrato, le si è avvicinato e le ha sparato sei colpi. Ha ferito anche altre due donne e una bambina. Era l’ex marito, che le aveva già incendiato la casa e l’attività, che era già andato in carcere per un anno ed ora non poteva avvicinarsi a lei, secondo le forze dell’ordine. Ma lui se n’è fregato e l’ha ammazzata. Lo stalking e gli incendi non gli bastavano più.
Ora Deborah è morta. Le istituzioni fanno a gara per dire che questo tipo di omicidio così odioso deve finire. Ma non basta dirlo, bisogna cambiare una cultura. E questo compito non spetta alle donne, ma agli uomini. Non serve che siano le vittime a urlare, a manifestare, a protestare. Siamo noi uomini che dobbiamo ribellarci, che dobbiamo insegnare ai nostri figli a non avere comportamenti sessisti, che dobbiamo stare attenti alle parole, agli stereotipi del “vero uomo” ad una cultura che in molte parti è intrisa di piccole manifestazioni di violenza nei confronti delle donne. 
E noi uomini dobbiamo avere il coraggio di dire IO NO. Dobbiamo avere il coraggio non solo di opporci a questi comportamenti, ma anche di rifiutare quelli degli altri. Dobbiamo dare peso alle piccole cose, a quelle frasi apparentemente insignificanti ma che contribuiscono a costruire un mondo nel quale la donna, per alcuni, è un possesso dell’uomo. Una merce di cui può disporne. Un oggetto che può manipolare come crede. Ecco che cosa dobbiamo fare noi uomini: ribellarci e dire IO NO.

C’è una cosa che un uomo impara da giovane: che mai potrà reggere una discussione con ‘lei’. Perché lei sarà sempre più brava, avrà più argomenti, saprà dire più cose. Questo è un problema per un uomo, un problema che a volte porta alla violenza, ma questa è un’altra storia.
C’è una spiegazione a questo.
Immaginatevi due case.
La prima è un loft americano: una di quelle case che si vedono nei film fatte di un’unica stanza in cui tutto è visibile, in cui tutto fa parte di un’unica composizione, dove le cose sono legate tra loro in modo indissolubile. Quel vaso sulla mensola è stato comprato in Grecia in un’isola che si vede nella foto sulla parete, l’anno dopo che è nato Pietro che ha compiuto 10 anni e per questo ieri sera i suoi compagni di classe erano tutti qui. Tutte le cose sono collegate, sono connesse, fanno parte di un unico disegno complessivo.
Pensate ora ad un’altra casa.
C’è un ingresso con due porte. Una va nella zona notte, in cui un corridoio porta alle camere che hanno ciascuna il proprio bagno. La zona giorno è divisa in cucina, sala e pranzo. La cucina è chiusa per non sentire gli odori e la sala per la tv ha una porta doppia scorrevole che la divide dal resto. Tutto è rigorosamente separato e ben ordinato, ed ogni cosa ha un proprio spazio.
Ecco, la donna ragiona come se la sua mente fosse quel loft. Ogni ricordo, ogni oggetto, ogni frase è legata a qualcos’altro in una sequenza di anelli che compongono tutta la sua vita. Non si può dimenticare nulla, perché ogni cosa conduce ad un’altra e ad un’altra ancora. I ricordi non si cancellano perché non si può spezzare quella catena.
La mente dell’uomo è invece la seconda casa. Una casa in cui ogni cosa ha un proprio posto, un proprio spazio, una stanza separata dalle altre da una solida porta, meglio se blindata. Quando l’uomo è in camera, la cucina non esiste, quando è nello studio potrebbero bruciare il bagno senza che lui se ne accorga. I ricordi, i pensieri non sono legati in una sequenza, ma sono separati in ambienti diversi e non c’è possibilità di collegamento.
Per questo che un uomo sa bene che mai potrà confrontarsi con una donna, perché lei avrà sempre più ricordi, più argomenti, più giustificazioni.
Ma non è tutto.
Perché ogni uomo ha anche un’altra stanza.
E’ la stanza del nulla. Una stanza vuota dove si rifugia, dove fugge, dove i pensieri non esistono perché annullati completamente. Il vuoto assoluto. Per questo un uomo può passare una giornata a guardare i goal di tutti i campionati d’Europa o può riordinare la sua collezione di dischi. Perché è entrato nella stanza del nulla, e se gli chiedete che cosa sta facendo, non saprà rispondervi, perché si è rifugiato nel nulla e in fondo non gli interessa nulla ciò che sta facendo. E’ solo assente.
Non bisogna chiedersi perché. Bisogna solo accettare che è così, e tutto sarà più semplice

Mio figlio non è un campione di sport, non vince le gare, le partite, non è richiesto da questa o quella squadra, non ha un allenatore che lo adora, non va ai campionati in giro per l’Italia…insomma, è un ragazzo normale.

In realtà no.
Non è affatto un ragazzo “normale”.

Ha una montagna di qualità come quasi tutti i ragazzi. Come tutti i genitori potrei passare ore ad elencare le sue doti ma una mancherebbe: non ha la competizione nel sangue e non sente il desiderio di essere il più bravo di tutti, di “massacrare” gli altri nello sport.

Ma perché scrivo questo?

Lo scrivo perché sono un po’ stufo di sentire i racconti di altri genitori che raccontano le gesta eroiche dei figli nello sport quando ti incontrano, quando ti rivedono anche dopo anni, quando li incroci per caso.
Non so mai cosa rispondere: il figlio degli altri ha sempre vinto un campionato, ha sempre una finale da fare, costringe sempre la famiglia a non fare qualcosa perché deve allenarsi per un’occasione importantissimo.

Mio figlio no.
E’ pigro? Per niente.
Non gli ho insegnato la competizione da piccolo?
Forse.
E’ diverso dagli altri?
Non credo proprio.

Semplicemente non è cresciuto con lo spirito competitivo nel sangue. Ho cercato in tutti i modi di non trasmetterglielo, convinto che sarebbe stato più sereno se non avesse avuto questo incubo per tutta la vita. I nostri ragazzi sono continuamente perseguitati dalla necessità di primeggiare, di sentirsi meglio degli altri, a volte questo diventa un vero problema psicologico e quello che penso è che gran parte della colpa in questo caso l’abbiamo proprio noi genitori. Soprattutto quando cerchiamo di riprodurre nella loro vita ciò che non siamo riusciti a fare noi stessi, e questo è un atteggiamento che dilaga tra i padri purtroppo.

Sapete che cosa vi dico? Che personalmente credo a meno della metà dei racconti di gesta sportive eroiche fatte dai genitori di tutti questi piccoli fenomeni dei campi da calcio, delle palestre o delle piscine. E quando sento questi racconti così enfatizzati, il più delle volte provo un po’ di pena per quei figli, per la fatica che devono fare ogni giorno per soddisfare i sogni del papà.
Alla frustrazione che li accompagna e li accompagnerà per tanti anni della loro vita.

Lo sport è una cosa diversa, è una passione che deve crescere in modo autonomo nei ragazzi, senza avere influenze così pesanti da parte dei genitori, senza essere un obbligo che serva a coprire sogni di mamma e papà. Fortunatamente per molti giovani è ancora così, che amano quello che fanno senza avere pressioni esterne, senza sentirsi obbligati. E in questo caso diventa davvero formativo, una parte importantissima della crescita.

Facciamo in modo che i nostri figli crescano sereni, felici, imparino ad apprezzare la propria vita, senza dover soddisfare le frustrazioni dei genitori.

In questo modo avremo fatto il nostro mestiere di genitori.

Ivan prende il bicchiere appoggiato sul banco in massello di rovere lasciando un segno perfettamente circolare nel sottile strato di polvere di legno che ricopre il vecchio tavolo da lavoro. Dalla parete a fianco entra un fascio di luce netto, dai confini quasi palpabili che taglia in due il laboratorio definendo un fronte e un retro completamente separati. La foto è lievemente sfuocata, rovinata, con una leggera curvatura che si è formata nel tempo, stando dentro a quel bicchiere anziché stesa sotto un vetro o in un album di ricordi. Ma Ivan non ha mai voluto spostarla: l’ha sempre tenuta lì dentro come se fosse una compagna, come se la sua presenza fosse diventata indispensabile e non potesse trovare la forza di separarsene. Per un momento resta in silenzio, osservando con attenzione il centro dell’immagine come se stesse entrando, o forse ritornando, in quel panorama caotico di mille volti alle spalle della donna ritratta in primo piano. Si erano conosciuti da poco, durante una delle tante manifestazioni alle quali in quegli anni gli studenti universitari partecipavano quotidianamente. Lei era determinata, dura, convinta che passare all’azione fosse una conseguenza indispensabile di quei cortei. Lui non era così certo, ma decise di seguirla per non perderla, o per proteggerla dalla sua stessa irruenza, dal suo desiderio di tracciare un solco da seguire per tutti gli altri.
O forse semplicemente perché l’amava, e questo era abbastanza.
Io lo lascio parlare, resto in silenzio, ad ascoltare. Penso che ho poco tempo, che dovrei tornare a lavorare ma non riesco ad interrompere il suo racconto così vero, così profondo. Un racconto sospinto da una passione che io non conosco.
Lo invidio.
Non ne sono mai stato capace.
Mentre guardo la sua mano gesticolare con la fotografia in mano e sorridere asciugandosi il sudore con la manica della camicia, mi accorgo che non riesco più ad ascoltarlo, che penso alla mia vita, a tutto ciò che ho costruito per saturarla, per colmarne gli angoli e renderla impermeabile anche alla più piccola incertezza. Non so se ho perso qualcosa, forse al contrario sono riuscito ad arricchire ogni ritaglio della mia esistenza. Vorrei riuscire a desiderare di tornare indietro per ripercorrere gli anni trascorsi. Per modificarli, per spostarli su direzioni sconosciute, interpretando altre vite che non ho mai avuto il coraggio di abbracciare.
Ma sarebbe inutile, sono certo che tornerei esattamente in questo stesso punto, che mi ritroverei nel laboratorio di Ivan a guardarlo mentre con una vecchia fotografia in mano e un bicchiere sporco di polvere di legno nell’altra, racconta una storia d’amore meravigliosa, una storia che io non ho mai voluto vivere.
Ma io sono come sono.

roberto silvestri

Oggi parlo di una storia triste, una storia che non vorrei raccontare. 
Ma della quale bisogna parlare invece. Aiutatemi a condividere questo post e a raccontare a più persone possibile una verità troppo spesso nascosta.

In Italia, negli ultimi 5 anni, oltre 400 mila bambini hanno assistito a scene di violenza domestica.
E’ un fenomeno sottovalutato.
E’ una tragedia nella tragedia.
E’ un aspetto del quale si parla ancora meno della violenza domestica stessa.
Ma sui bambini, osservare la violenza, porta conseguenze gravissime: ritardi nello sviluppo, ansia, incapacità di socializzazione, depressione, perdita di autostima.
Da tempo penso a questo tema del quale nessuno parla, che Save the Children denuncia ma che non è presente nella stampa, nella tv, nella radio e in nessun media.
Capisco perché: perché il bambino testimone di violenza non può denunciare, non è vittima, non è protagonista, non ha un ruolo. Non è nessuno.
E allora che cosa facciamo?
Non ho la soluzione in tasca, ma non mi basta dire che bisogna tenere sotto osservazione i ragazzi, che bisogna cogliere ogni segnale, che bisogna stare attenti.
Non è sufficiente.
400 mila bambini sono tanti, sono troppi. 
Iniziamo a parlarne, a sollevare il problema, ad aiutare Save the Children, a discuterne.
A cercare delle strade per aiutare i più deboli della nostra società.
Sarebbe bello che ora potessi dirvi che cosa bisogna fare.
Purtroppo non lo so. O meglio, non lo so ancora.
Ma so che vorrei sapere che cosa ne pensate anche voi.
Insieme possiamo fare qualcosa.

https://www.savethechildren.it/…/violenza-assistita-italia-…