Qualche tempo fa fa sono stato nella soffitta dei miei genitori per cercare un disco in vinile di un concerto di David Bowie. Era estate, faceva ancora caldo.

In mezzo a quel casino di scatoloni, oggetti, mobili antichi e altri ricordi, invece del disco ho ritrovato il mio vecchio giubbotto di jeans. Il mitico Roy Rogers, quello che andava di moda negli anni novanta. Bellissimo e consunto…

L’ho preso in mano, l’ho scrollato per togliere la polvere e con un po’ di commozione me lo sono provato.Proprio li, in quello spazio minuscolo, piegando la testa per guardarmi da sopra, perché non c’era nessuno specchio.

Il giorno dopo l’ho messo, forse per sentirmi ancora un ragazzo. Ero a Camogli, al sole del mattino presto, seduto al bar per prendere un caffè. Distrattamente apro la cerniera della tasca di quel giubbotto.

Tra le mie mani un biglietto, ancora perfetto, con scritto: sabato 8 settembre ore 21. David Bowie.

Il mio sguardo si fissa su quel biglietto.
Stringo leggermente gli occhi, come per concentrarmi, mentre nei miei occhi riaffiora un ricordo.

Andai con Melania a quel concerto, allora era la fidanzata di Massimo, uno dei miei più cari amici che però non amava il rock.
Partimmo da Genova al mattino, in treno. Passammo la giornata a parlare di noi. Di università, di amici, del nostro futuro, di tutto quello che ci piaceva.
Melania camminava in un modo strano, leggermente ondeggiante. Noi spesso la prendevamo in giro e io la guardavo camminare sul prato di fronte al palco per raggiungere i posti migliori per seguire il concerto.

David Bowie salì sul palco, ma ci restò meno di mezz’ora. Interruppe il concerto perché era completamente afono e non riusciva a cantare.

Io e lei non ci arrabbiammo neppure. Continuammo a parlare tutta la notte seduti sul pavimento di marmo della stazione, aspettando il primo treno del mattino.

Avevamo un sacco di cose da dirci, a quell’etá i ragazzi non smetterebbero maindi raccontarsi, così la notte passò in un momento.
Grazie David, grazie Melania.
Grazie anche a chi vorrà condividerla.

Come sarà il futuro dei nostri figli?
Voi riuscite ad immaginarvelo? Io no.
Sono stato qualche giorno in montagna, in quella casa dove amo rifugiarmi per scrivere, pensare, come si dice per “ricaricare le pile” primo di tornare in città.
Ma questa volta non sono riuscito a rilassarmi.
Sono preoccupato, mi guardo intorno e non riesco più a trovare quell’ottimismo per il futuro che ha caratterizzato tutta la mia vita.
Penso a mio figlio, penso ai ragazzi che mi vedo intorno
e provo ad immaginarmi il mondo che gli stiamo lasciando (tutti noi, nessuno escluso). Devo confessarvi che mi sento in colpa, perché so che sarà un mondo meno accogliente del nostro, meno stimolante, meno aperto alle loro esperienze e alle loro idee.
Con gli amici oramai si discute abitualmente sui paesi stranieri in cui vorremmo che i nostri figli andassero a lavorare, a cercare fortuna, a mettere in pratica ciò che hanno imparato…o addirittura a studiare perchè non ci fidiamo più neppure della nostra scuola, delle nostre università. Lo facciamo come se fosse una cosa normale, come se stessimo parlando della trama di un romanzo o del menù della cena.
Non parlo di politica, non mi riferisco al governo o e alle sue decisioni.
Penso alla totale assenza del senso di comunità, di bene comune. Penso alla cultura contemporanea ormai imperante in Italia, che non riesce a capire che solo nella condivisione degli obiettivi, nella creazione di un disegno complessivo da perseguire insieme, si può creare una società migliore, più giusta, più prospera.
Più felice.
Ecco, quello che ci manca: un vero desiderio di felicità, perchè la volontà di sovrastare il prossimo ha preso il sopravvento.

Autobus affollato, lei seduta di fronte a lui, avranno 16 anni, parlano come se fossero soli.

Lei: ‘a me non me ne fotte un cazzo se lei ti si fa, ma non deve farlo davanti a me, se prima mi ti sono giá fatta io’ (giuro…proprio così).
Lui: ‘ma allora anche lei…’
Lei: ….e certo, cazzo.
Lui: ‘quindi é solo questione di chi c’é prima’
Lei: Certo, infatti ora appena arriva Nico me lo faccio subito così quando arriva Chiara non puó farci niente, piuttosto aspetto con due ore d’anticipo per farmelo prima’

…purtroppo a questo punto sono scesi, ma la lezione é stata sufficente.

Doom Generation.

Quando aveva 4 o 5 anni mio figlio aveva scelto Peter Pan come film preferito e lo guardava in continuazione. Era una bella storia, una storia di quelle che ti lasciano il sorriso. Come tutti voi….anche io sono stato costretto a rivedere quel film un milione di volte al mattino, alla sera, al pomeriggio, quando ero stanco e mi si chiudevano gli occhi o quando volevo rilassarmi leggendo il giornale. ‘Papà, vieni sbrigati che ora combattono con i pirati’ ‘…eccomi’.

A distanza di anni però devo dire che quel cartone mi ha lasciato un’eredità importante: il ‘pensiero felice.’
Peter Pan infatti, insegna ai suoi nuovi amici ad avere un ‘pensiero felice’ per proteggerci nei momenti difficili, per tirarci su, per dimenticare qualcosa che ci rende tristi. A distanza di tanti anni (ora il pupo ha 17 anni ahimè….) trovo che nella sua apparente banalità, questo sia un metodo straordinario per superare le difficoltà della vita indirizzando i nostri pensieri verso qualcosa che ci aiuta a superarli. Uno psicologo forse lo direbbe in modo più forbito, ma io credo che il concetto sia chiaro anche in questo modo.
Io nella mia vita ho accumulato molti pensieri felici e uno di quelli ai quali penso di più sono i momenti in cui mi rifugio in mezzo alla natura, nella mia amata Lapponia, in una piccola casa sul fiume in cui ritrovo me stesso e raccolgo le mie forze per tornare e ricominciare.