roberto silvestri

Oggi parlo di una storia triste, una storia che non vorrei raccontare. 
Ma della quale bisogna parlare invece. Aiutatemi a condividere questo post e a raccontare a più persone possibile una verità troppo spesso nascosta.

In Italia, negli ultimi 5 anni, oltre 400 mila bambini hanno assistito a scene di violenza domestica.
E’ un fenomeno sottovalutato.
E’ una tragedia nella tragedia.
E’ un aspetto del quale si parla ancora meno della violenza domestica stessa.
Ma sui bambini, osservare la violenza, porta conseguenze gravissime: ritardi nello sviluppo, ansia, incapacità di socializzazione, depressione, perdita di autostima.
Da tempo penso a questo tema del quale nessuno parla, che Save the Children denuncia ma che non è presente nella stampa, nella tv, nella radio e in nessun media.
Capisco perché: perché il bambino testimone di violenza non può denunciare, non è vittima, non è protagonista, non ha un ruolo. Non è nessuno.
E allora che cosa facciamo?
Non ho la soluzione in tasca, ma non mi basta dire che bisogna tenere sotto osservazione i ragazzi, che bisogna cogliere ogni segnale, che bisogna stare attenti.
Non è sufficiente.
400 mila bambini sono tanti, sono troppi. 
Iniziamo a parlarne, a sollevare il problema, ad aiutare Save the Children, a discuterne.
A cercare delle strade per aiutare i più deboli della nostra società.
Sarebbe bello che ora potessi dirvi che cosa bisogna fare.
Purtroppo non lo so. O meglio, non lo so ancora.
Ma so che vorrei sapere che cosa ne pensate anche voi.
Insieme possiamo fare qualcosa.

https://www.savethechildren.it/…/violenza-assistita-italia-…

Martedì sono stato in un carcere a vedere uno spettacolo teatrale dei detenuti e ho avuto un incontro che mi ha colpito. Ho scritto questo per raccontarvelo.
Ci metterete due minuti a leggerlo, ma vi farà riflettere.

100 METRI
Questa era la distanza tra le nostre case. Erano gli anni 70, quelli subito dopo la ricostruzione post bellica, la legge 167, il Piano Fanfani. Un crinale divideva la collina dove abitavo in due parti adiacenti ma che rappresentavano due mondi diversi. Sul fianco sud, la strada con le case costruite per dipendenti pubblici, bancari, impiegati di enti statali. Nella strada a nord c’erano le case popolari. Quelle destinate agli immigrati che allora venivano dal meridione. Erano i terroni, quelli che a casa loro lavoravano la terra. Non erano molto diversi dai migranti di oggi: anche loro erano scuri in volto, capelli neri e i genitori non sapevano l’italiano. Ma i loro figli si. Quelli lo parlavano come noi che vivevamo dall’altra parte del crinale. Esattamente a metà, proprio sulla linea di confine tra questi due mondi, c’era la chiesa, la parrocchia di Santa Maria. Per noi bambini era l’oratorio, il posto dove giocavamo tutti i pomeriggi. Io avevo 10 anni e non capivo la differenza tra gli amici che abitavano a sud e quelli che stavano a nord. Eravamo tutti uguali allora, ci interessava solo sfidarci a ping pong o a pallone. E le squadre erano miste. Ieri sera ho rivisto Riccardo. Ero in un teatro strano, dentro al carcere di Marassi e stavo guardando uno spettacolo bellissimo nel quale gli attori erano i detenuti. Un’attività che consente loro di ricrearsi una vita quando usciranno. Appena Riccardo è salito sul palco l’ho riconosciuto subito anche se sono passati 40 anni. Ha ancora gli stessi lineamenti anche se è ingrassato e con il vestito di scena era molto diverso dagli anni 70. 
Abitavamo a 100 metri di distanza.
Pochissimo.
Ma le nostre vite erano destinate ad essere diverse perché lui viveva nella parte nord della collina e io in quella a sud. Perché chi saliva verso la chiesa con il sole alle spalle, dopo la terza media andava al liceo o a ragioneria se aveva poca voglia di studiare, mentre chi aveva il sole in faccia la domenica mattina per andare a messa come se fosse ancora nei campi dei suoi genitori, a quattordici anni andava a fare il meccanico o il benzinaio. Se era fortunato. 
Alla fine dello spettacolo ho parlato qualche minuto con lui. Ci ricordavamo benissimo uno dell’altro ed eravamo un po’ in imbarazzo. Entrambi. Come se fosse un destino ineluttabile mi ha raccontato che quasi nessuno dei bambini con i quali giocavamo è stato fortunato. La droga li ha portati via tutti, o quasi. Ne abbiamo elencati una decina. Allora c’era l’eroina, che anche se naturale non risparmiava nessuno, neppure se la chiesa ti consentiva di giocare con bambini che l’anno dopo sarebbero andati al liceo. Solo uno di loro è ancora vivo, si chiama Antonio. E’ l’unico restato al mondo oltre a lui che ha la fortuna di fare l’attore in Carcere e di sapere che prima o poi tornerà a casa: sempre nella stessa via da dove non si è mai spostato.
Mentre tornavo a casa dopo aver parlato con lui, ho sentito il bisogno di tornare in quella via dove non abito più da decenni, in quella strada da dove la mia famiglia si è spostata pochi anni dopo per andare a vivere in un elegante quartiere residenziale secondo un modello di crescita sociale naturale per chi viveva a sud del crinale. Ho rivisto la mia vecchia casa, la strada tortuosa, gli alberi sui quali ci arrampicavamo. E ho rivisto la strada dove abitava Riccardo, più stretta della mia, più impervia, più brutta in fondo. Allora non me ne rendevo conto, mi sembrava uguale. Poi mi sono fermato anche davanti alla Parrocchia di Santa Maria. Ora ci hanno messo un cancello davanti e hanno trasformato il sagrato in un parcheggio. Non so se esiste ancora il grande oratorio al piano di sotto. Ma in fondo non importa, perché anche se quella chiesa è stata costruita esattamente sul confine non è riuscita a tenere in vita tutti quei ragazzi. Fortunatamente qualcuno di loro è rimasto. Riccardo è uno di questi: forse era più forte, più bravo, più acuto. Ora ha un compito difficile, ma per quel poco che abbiamo parlato, ho capito che lo porterà a termine. Che uscirà dal carcere e ricostruirà una vita diversa per sé, per la sua famiglia, per i suoi amici di allora. Probabilmente non farà l’attore ma non importa, io sono sicuro che ce la farà e sono felice di aver ritrovato un amico.