Martedì sono stato in un carcere a vedere uno spettacolo teatrale dei detenuti e ho avuto un incontro che mi ha colpito. Ho scritto questo per raccontarvelo.
Ci metterete due minuti a leggerlo, ma vi farà riflettere.

100 METRI
Questa era la distanza tra le nostre case. Erano gli anni 70, quelli subito dopo la ricostruzione post bellica, la legge 167, il Piano Fanfani. Un crinale divideva la collina dove abitavo in due parti adiacenti ma che rappresentavano due mondi diversi. Sul fianco sud, la strada con le case costruite per dipendenti pubblici, bancari, impiegati di enti statali. Nella strada a nord c’erano le case popolari. Quelle destinate agli immigrati che allora venivano dal meridione. Erano i terroni, quelli che a casa loro lavoravano la terra. Non erano molto diversi dai migranti di oggi: anche loro erano scuri in volto, capelli neri e i genitori non sapevano l’italiano. Ma i loro figli si. Quelli lo parlavano come noi che vivevamo dall’altra parte del crinale. Esattamente a metà, proprio sulla linea di confine tra questi due mondi, c’era la chiesa, la parrocchia di Santa Maria. Per noi bambini era l’oratorio, il posto dove giocavamo tutti i pomeriggi. Io avevo 10 anni e non capivo la differenza tra gli amici che abitavano a sud e quelli che stavano a nord. Eravamo tutti uguali allora, ci interessava solo sfidarci a ping pong o a pallone. E le squadre erano miste. Ieri sera ho rivisto Riccardo. Ero in un teatro strano, dentro al carcere di Marassi e stavo guardando uno spettacolo bellissimo nel quale gli attori erano i detenuti. Un’attività che consente loro di ricrearsi una vita quando usciranno. Appena Riccardo è salito sul palco l’ho riconosciuto subito anche se sono passati 40 anni. Ha ancora gli stessi lineamenti anche se è ingrassato e con il vestito di scena era molto diverso dagli anni 70. 
Abitavamo a 100 metri di distanza.
Pochissimo.
Ma le nostre vite erano destinate ad essere diverse perché lui viveva nella parte nord della collina e io in quella a sud. Perché chi saliva verso la chiesa con il sole alle spalle, dopo la terza media andava al liceo o a ragioneria se aveva poca voglia di studiare, mentre chi aveva il sole in faccia la domenica mattina per andare a messa come se fosse ancora nei campi dei suoi genitori, a quattordici anni andava a fare il meccanico o il benzinaio. Se era fortunato. 
Alla fine dello spettacolo ho parlato qualche minuto con lui. Ci ricordavamo benissimo uno dell’altro ed eravamo un po’ in imbarazzo. Entrambi. Come se fosse un destino ineluttabile mi ha raccontato che quasi nessuno dei bambini con i quali giocavamo è stato fortunato. La droga li ha portati via tutti, o quasi. Ne abbiamo elencati una decina. Allora c’era l’eroina, che anche se naturale non risparmiava nessuno, neppure se la chiesa ti consentiva di giocare con bambini che l’anno dopo sarebbero andati al liceo. Solo uno di loro è ancora vivo, si chiama Antonio. E’ l’unico restato al mondo oltre a lui che ha la fortuna di fare l’attore in Carcere e di sapere che prima o poi tornerà a casa: sempre nella stessa via da dove non si è mai spostato.
Mentre tornavo a casa dopo aver parlato con lui, ho sentito il bisogno di tornare in quella via dove non abito più da decenni, in quella strada da dove la mia famiglia si è spostata pochi anni dopo per andare a vivere in un elegante quartiere residenziale secondo un modello di crescita sociale naturale per chi viveva a sud del crinale. Ho rivisto la mia vecchia casa, la strada tortuosa, gli alberi sui quali ci arrampicavamo. E ho rivisto la strada dove abitava Riccardo, più stretta della mia, più impervia, più brutta in fondo. Allora non me ne rendevo conto, mi sembrava uguale. Poi mi sono fermato anche davanti alla Parrocchia di Santa Maria. Ora ci hanno messo un cancello davanti e hanno trasformato il sagrato in un parcheggio. Non so se esiste ancora il grande oratorio al piano di sotto. Ma in fondo non importa, perché anche se quella chiesa è stata costruita esattamente sul confine non è riuscita a tenere in vita tutti quei ragazzi. Fortunatamente qualcuno di loro è rimasto. Riccardo è uno di questi: forse era più forte, più bravo, più acuto. Ora ha un compito difficile, ma per quel poco che abbiamo parlato, ho capito che lo porterà a termine. Che uscirà dal carcere e ricostruirà una vita diversa per sé, per la sua famiglia, per i suoi amici di allora. Probabilmente non farà l’attore ma non importa, io sono sicuro che ce la farà e sono felice di aver ritrovato un amico.

Io non credo che debbano essere solo le donne a combattere contro la violenza domestica.
Anzi, sono convinto del contrario, sono convinto che solo una battaglia condotta dagli uomini possa portare a quell’indispensabile cambiamento culturale del genere maschile per limitare, se non debellare, la violenza domestica.
Per questo ho deciso di iniziare a parlarne, a discuterne, a utilizzare gli strumenti che ho per combattere un crimine di cui sono vittima un numero impressionante di donne e di bambini. E’ incredibile, ma se si parla in confidenza con una donna si scopre che lei, o un’amica, o una conoscente hanno subito una forma di violenza, di abuso.
E’ un fenomeno così diffuso da far rabbrividire.
Per questo ho deciso di parlarne, e continuerò a farlo, cercando di aiutare tutte le persone che posso e di offrire il mio aiuto per cambiare tutti quegli aspetti culturali che portano a queste conseguenze.
Per questo motivo vi chiedo di CONDIVIDERE quest o e i prossimi post che per aiutarmi in questa battaglia.
MA CHE COS’E’ LA VIOLENZA DOMESTICA?
La Convenzione di Instambul del 2011 la definisce così:
“l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”

Quando un bambino assiste a scene di violenza domestica sia psicologica sia fisica, subisce dei traumi profondi che influiscono sulla sua vita in modo pesante.

Sentire le urla della mamma picchiata, il rumore dei piatti che si rompono, minacce, insulti e vivere in un clima di terrore, provoca danni a volte irreparabili nella vita dei bambini. Danni che possono essere a breve termine o a lungo termine.

Quei bambini potranno avere conseguenze comportamentali gravi come aggressività, irrequietezza, disinteresse, scarso impegno a scuola. Oppure conseguenze fisiche: ritardi nello sviluppo, disturbi del sonno e dell’alimentazione. O ancora conseguenze a livello sociale come gravi difficoltà a stabilire relazioni per paura, uso di droghe e alcool. Altre volte saranno più lenti dal punto di vista cognitivo e avranno scarsa capacità di concentrazione oppure avranno attacchi di ansia, senso di impotenza, bassa autostima.

Queste sono solo alcune delle conseguenze possibili, ed in estrema sintesi, su chi è stato testimone di violenza domestica, nella maggior parte dei casi sulla propria mamma.

Non sottovalutiamo il fenomeno, pensiamo al futuro dei nostri bambini, anche di quelli che hanno la sfortuna di trovarsi in situazioni così difficili.

Se provate a chiedere ad un uomo quante volte si è sentito dire questa frase dalla propria amata, vi risponderà “innumerevoli”, ed è assolutamente vero! Sembra che le donne vogliano sempre cambiarli e non smettono mai di provare, neanche quando sono vecchi, neppure quando sembra non esserci più nessuna speranza.
Ma c’è una semplice spiegazione a questo.
Dalle nostre parti la donna, a torto o a ragione, è culturalmente portata a costruirsi un “uomo ideale” da avere al fianco. Da piccola gioca con le bambole, costruisce la casetta per la famiglia, le raccontano di principi azzurri, le dicono che il matrimonio sarà il giorno più bello della sua vita. Non dico che questo sia giusto, dico solo che oggi è ancora così: la casetta di Ken e Barbie è uno dei giochi più regalati alle bambine tutt’oggi.
Se provate a chiedere ad un uomo quante volte si è sentito dire questa frase dalla propria amata, vi risponderà “innumerevoli”, ed è assolutamente vero! Sembra che le donne vogliano sempre cambiarli e non smettono mai di provare, neanche quando sono vecchi, neppure quando sembra non esserci più nessuna speranza.
Ma c’è una semplice spiegazione a questo.
Dalle nostre parti la donna, a torto o a ragione, è culturalmente portata a costruirsi un “uomo ideale” da avere al fianco. Da piccola gioca con le bambole, costruisce la casetta per la famiglia, le raccontano di principi azzurri, le dicono che il matrimonio sarà il giorno più bello della sua vita. Non dico che questo sia giusto, dico solo che oggi è ancora così: la casetta di Ken e Barbie è uno dei giochi più regalati alle bambine tutt’oggi.
Questo modo di crescere, porta le donne a costruirsi quell’uomo ideale verso il quale vorrebbero che il proprio marito, amante o compagno si avvicinasse il più possibile. E per raggiungere questo scopo, cercano di “cambiare” gli aspetti che lo allontanano dal quella figura ideale. Come se fosse una sorta di scultura, cercano di modellarlo per farlo diventare più simile possibile al sogno della loro vita.
Gli uomini invece no, sono educati ad altro e per questo sono meno attenti a questi aspetti. Tuttavia sono perfettamente consapevoli che nella propria vita ascolteranno tantissime volte la frase “tu devi cambiare” dalle labbra di chi gli sta accanto. Il motivo è questo.
Perciò non resta altro che accettare la realta: è’ così, e non ci si può far niente…finche esisteranno ancora i pricipi azzurri delle favole e le casette delle bambole! 😊

Ho ascoltato un famoso psicanalista parlare di figli, di ciò che dovremmo essere capaci di fare. Mio figlio è adolescente e io dovrei essere capace di dirgli una parola importante:

Vai

Dovrei cioè essere in grado di non ostacolare la sua volontà, consentirgli di percorrere la sua strada e costruire la propria vita senza interferenze. Sono un padre attento, a volte ingombrante. Lo so. E non è facile dire Vai a tuo figlio.
Qualche giorno fa, ho risposto ad una lettrice dicendole che, ad una certa età, é necessario allontanarsi dai figli, anche se loro non lo fanno volontariamente.
Bene, subito dopo ho pensato: ma io ne sono capace? Lo sto facendo?
Oppure predico bene ma razzolo male, come si dice. Non lo so…
Spesso penso a come erano i miei genitori, alla loro capacità di essere infinitamente più equilibrati di noi forse semplicemente perché meno consapevoli.
Mio padre ha saputo dirmi Vai, che non significava smettere di educarmi, ma saper osservare il mio cammino standomi a fianco. Ogni giorno mi domando se sarò in grado di fare la stessa cosa.
E voi? Ne siete capaci?

Si chiama “Violenza assistita” quella forma di violenza che subiscono i minori quando sono testimoni di violenza domestica, quando letteralmente “assistono” a manifestazioni violente dentro casa loro.
E’ una forma poco conosciuta, sottovalutata, a volte addirittura ignorata. In realtà ha conseguenze devastanti per la crescita dei bambini: ha impatti sullo sviluppo fisico, su quello emotivo, sul comportamento, sulla socializzazione.
In Italia tra il 2009 e il 2014 oltre 400 mila minorenni hanno assistito a forme di violenza fisica o psicologica dentro l’ambiente domestico, nella maggior parte dei casi compiuta dal padre sulla madre.
Non possiamo far finta di niente e soprattutto non possiamo arrenderci credendo che non ci siano strumenti per combatterla perché “dentro casa”.
Aiutatemi in questa battaglia: facciamo sapere a più persone possibili che la VIOLENZA ASSISTITA esiste ed è un fenomeno diffuso. Che se vogliamo combatterla dobbiamo parlarne.
CONDIVIDETE questo articolo con tutti quelli che conoscete, facciamo conoscere questo fenomeno subdolo e odioso a chi non “ci ha mai pensato”. A tutti quelli che riusciamo.
Sarà un primo passo in avanti. Aiutatemi.
Grazie

Oggi mio papà ha deciso di andarsene.
Me lo aveva già fatto capire nelle scorse settimane, ma speravo che stesse scherzando, che stesse solo facendo finta. Invece era vero.
Avevo 16 anni, era una mattina di settembre, io e mio padre avevamo appena compiuto gli anni. Lui 37 più di me. 
Andammo in Comune a prendere un documento. Appena entrati chiedemmo un’indicazione all’usciere che ci rispose in modo strano facendomi innervosire, perché mi domandai come fosse possibile che a dare informazioni mettessero un disabile con evidenti problemi di pronuncia. Ero giovane e irruento allora e mi arrabbiai. 
Mio padre continuó a camminare serafico ma rallentó il passo è mi disse:
‘Ma Roberto, secondo te non deve esserci qualcuno che si occupi anche di chi non é sano, di chi non é normale? Qualcuno che che faccia lavorare chi non é un genio e forse non é neppure intelligente? Non bisogna essere per forza bravi nella vita, non tutti lo sono. Esistono anche gli ultimi, quello che non ce la fanno, quello che non riescono. Non solo, ma esistono anche gli stupidì, gli irresponsabili, quello che sbagliano sempre. E loro non hanno il diritto ad una vita come tutti gli altri? Ad un lavoro, alla propria dignità?’
Queste naturalmente non furono le sue parole precise, ma il senso era quello. 
In questo momento sono così frastornato dalla giornata che non ricordo altri suoi insegnamenti, ma quelle brevi frasi hanno influito su tutta la mia vita, su ogni momento della mia esistenza.
Grazie papà, quel giorno mi hai insegnato il rispetto e l’amore per qualsiasi donna o uomo sulla terra, anche per i più deboli, per gli ultimi, per quelli che non sono brillanti o Smart, come si direbbe oggi.
Dalle tue parole ho imparato che non bisogna necessariamente vincere per avere una vita dignitosa, che non é obbligatorio primeggiare e che anche chi ha fatto degli sbagli merita rispetto, merita affetto, per il solo fatto di essere una persona.
Ma soprattutto quella mattina di settembre di tanti anni fa mi hai fatto capire che l’essere umano é fatto di amore per il prossimo, indipendentemente dalla religione, dal credo politico, dalle ideologie. E questo insegnamento lo porterò sempre con me, te lo prometto.
Caro papà, non dimenticherò mai le tue parole di quel giorno, non dimenticherò mai la tua infinita bontà che avevi con tutti e soprattutto non dimenticherò mai il tuo sguardo pieno d’amore per me, per tuo figlio.
Ciao papà.
Questa é una delle ultime foto che abbiamo insieme, sei proprio tu, con quel tuo sguardo ironico e vivace che ti sei portato dietro fino all’ultimo, fino a 91 anni. Ti voglio bene.

Qualche tempo fa fa sono stato nella soffitta dei miei genitori per cercare un disco in vinile di un concerto di David Bowie. Era estate, faceva ancora caldo.

In mezzo a quel casino di scatoloni, oggetti, mobili antichi e altri ricordi, invece del disco ho ritrovato il mio vecchio giubbotto di jeans. Il mitico Roy Rogers, quello che andava di moda negli anni novanta. Bellissimo e consunto…

L’ho preso in mano, l’ho scrollato per togliere la polvere e con un po’ di commozione me lo sono provato.Proprio li, in quello spazio minuscolo, piegando la testa per guardarmi da sopra, perché non c’era nessuno specchio.

Il giorno dopo l’ho messo, forse per sentirmi ancora un ragazzo. Ero a Camogli, al sole del mattino presto, seduto al bar per prendere un caffè. Distrattamente apro la cerniera della tasca di quel giubbotto.

Tra le mie mani un biglietto, ancora perfetto, con scritto: sabato 8 settembre ore 21. David Bowie.

Il mio sguardo si fissa su quel biglietto.
Stringo leggermente gli occhi, come per concentrarmi, mentre nei miei occhi riaffiora un ricordo.

Andai con Melania a quel concerto, allora era la fidanzata di Massimo, uno dei miei più cari amici che però non amava il rock.
Partimmo da Genova al mattino, in treno. Passammo la giornata a parlare di noi. Di università, di amici, del nostro futuro, di tutto quello che ci piaceva.
Melania camminava in un modo strano, leggermente ondeggiante. Noi spesso la prendevamo in giro e io la guardavo camminare sul prato di fronte al palco per raggiungere i posti migliori per seguire il concerto.

David Bowie salì sul palco, ma ci restò meno di mezz’ora. Interruppe il concerto perché era completamente afono e non riusciva a cantare.

Io e lei non ci arrabbiammo neppure. Continuammo a parlare tutta la notte seduti sul pavimento di marmo della stazione, aspettando il primo treno del mattino.

Avevamo un sacco di cose da dirci, a quell’etá i ragazzi non smetterebbero maindi raccontarsi, così la notte passò in un momento.
Grazie David, grazie Melania.
Grazie anche a chi vorrà condividerla.

Come sarà il futuro dei nostri figli?
Voi riuscite ad immaginarvelo? Io no.
Sono stato qualche giorno in montagna, in quella casa dove amo rifugiarmi per scrivere, pensare, come si dice per “ricaricare le pile” primo di tornare in città.
Ma questa volta non sono riuscito a rilassarmi.
Sono preoccupato, mi guardo intorno e non riesco più a trovare quell’ottimismo per il futuro che ha caratterizzato tutta la mia vita.
Penso a mio figlio, penso ai ragazzi che mi vedo intorno
e provo ad immaginarmi il mondo che gli stiamo lasciando (tutti noi, nessuno escluso). Devo confessarvi che mi sento in colpa, perché so che sarà un mondo meno accogliente del nostro, meno stimolante, meno aperto alle loro esperienze e alle loro idee.
Con gli amici oramai si discute abitualmente sui paesi stranieri in cui vorremmo che i nostri figli andassero a lavorare, a cercare fortuna, a mettere in pratica ciò che hanno imparato…o addirittura a studiare perchè non ci fidiamo più neppure della nostra scuola, delle nostre università. Lo facciamo come se fosse una cosa normale, come se stessimo parlando della trama di un romanzo o del menù della cena.
Non parlo di politica, non mi riferisco al governo o e alle sue decisioni.
Penso alla totale assenza del senso di comunità, di bene comune. Penso alla cultura contemporanea ormai imperante in Italia, che non riesce a capire che solo nella condivisione degli obiettivi, nella creazione di un disegno complessivo da perseguire insieme, si può creare una società migliore, più giusta, più prospera.
Più felice.
Ecco, quello che ci manca: un vero desiderio di felicità, perchè la volontà di sovrastare il prossimo ha preso il sopravvento.

Autobus affollato, lei seduta di fronte a lui, avranno 16 anni, parlano come se fossero soli.

Lei: ‘a me non me ne fotte un cazzo se lei ti si fa, ma non deve farlo davanti a me, se prima mi ti sono giá fatta io’ (giuro…proprio così).
Lui: ‘ma allora anche lei…’
Lei: ….e certo, cazzo.
Lui: ‘quindi é solo questione di chi c’é prima’
Lei: Certo, infatti ora appena arriva Nico me lo faccio subito così quando arriva Chiara non puó farci niente, piuttosto aspetto con due ore d’anticipo per farmelo prima’

…purtroppo a questo punto sono scesi, ma la lezione é stata sufficente.

Doom Generation.