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24 agosto 2019 – Sono passati tre anni. Ho ancora davanti agli occhi le immagini del terremoto del 24 agosto e del 26 ottobre 2016, di quelle piccole comunità devastate da un sisma che le avrebbe cambiate per sempre. Alcune di queste hanno nomi oramai conosciuti da tutti: Amatrice, Norcia, Accumuli. Altre no. Sono le località più difficilmente raggiungibili perché nascoste dalla maestosità dei Monti Sibillini. Di queste non si legge sui giornali, non si parla nei dibattiti. Si chiamano Visso, Ussita, Arquata del Tronto, Castelsantangelo sul Nera e tante altre. Qui non sono arrivati i giornalisti, le televisioni. Per rendersi conto del loro dramma occorreva andare di persona e inerpicarsi per strade tortuose se si voleva capire la vera dimensione del dramma di chi aveva trascorso una vita in quelle zone impervie. Da allora è stato fatto molto per la ricostruzione, sono state ricostruite scuole, infrastrutture, edifici pubblici, molte case private sono in fase di realizzazione, anche se naturalmente c’è ancora molto da fare. Ma la cosa più difficile è ricreare la comunità degli abitanti, prima ancora di ricostruire gli edifici crollati. E questa si ricostruisce con la solidarietà, quella solidarietà che per l’Italia oggi è una necessità vitale

Oggi sono felice.
Perché finalmente li hanno lasciati sbarcare.
Dopo aver viaggiato per settimane, dopo aver subito abusi e sofferto la fame, dopo essere state violentate e trattate come schiave, dopo aver pianto disperatamente e aver pensato che non avrebbero mai dovuto fare quel viaggio.
Sono persone. Sono donne, uomini, bambini che hanno un nome ed una storia alle spalle, persone che amano, piangono e che fortunatamente ridono, come sono riusciti a fare grazie ai volontari che li hanno salvati.
Qualcuno avrebbe voluto che anche io mi dimenticassi che sono esseri umani come i nostri figli. Qualcuno avrebbe voluto che anche io mi convincessi che si potessero lasciar morire in mare, come bestie.
Ma io non dimentico chi sono io e chi sono loro. Non dimentico che ogni essere umano deve essere salvato se in pericolo.
Si chiama UMANITA’
E oggi sono felice perchè dopo tanti mesi, vedo che in lo stato italiano non ha perso la propria UMANITA’.

A Genova c’è il porto. Nella sua storia sono arrivate milioni di persone, da tutte le parti del mondo. Alcuni solo di passaggio, altri si sono fermati. Questo ci ha resi tutti i meticci. Persone Ibride. In dialetto qui il pomodoro si chiama Tomata e il carciofo Ardiciocca, proprio come in inglese Tomato e Artichoke. Da noi quando c’è confusione diciamo che c’è un Ramadan, i famosi Camalli hanno rubato il nome dall’arabo Hamal. Ma siamo sempregenovesi, con il nostro carattere burbero e scontroso. Uomini e donne capaci di ripartire quando crolla un ponte, quando ci devasta un’alluvione o quando il mare distrugge il lavoro di tanti anni. Spesso senza chiedere aiuto, perché siamo fatti così. Perché questa è la nostra storia. Ed è quello che ci hanno insegnato.
E io oggi dovrei aver paura di 17 bambini, 23 donne e 60 uomini che arrivano da chissà dove?
Che cosa farebbe mio nonno se glielo raccontassi? Riderebbe di me, ecco che cosa farebbe.
Oggi i nostri politici vengono da fuori e non conoscono la nostra storia. Dovrebbero parlare con i nostri vecchi, con chi ha combattuto davvero per la libertà. Gli spiegherebbero che 100 “neri” non ci fanno paura. Gli risponderebbero che qui a Genova ne abbiamo visti di tutti i colori, bianchi gialli, neri, …birulò, per dirlo in dialetto. Parlerebbero senza dare importanza al politico di turno, continuando a lavorare perché il tempo non si deve sprecare. Ma gli direbbero anche di non farli scappare, perché 100 migranti ci servono, perché a Genova c’è sempre da fare. E 100 sono anche pochi.