Per arrivare alle isole Lofoten si passa sull’Atlantico, seguendo i fiordi di Senja. La strada é tortuosa, lenta, ma non abbastanza. Vorresti fermarti ogni curva per assorbire la bellezza che ti circonda, per respirare la durezza delle rocce a strapiombo. A volte vorresti immergerti in quel mare freddo e protetto dalle montagne, altre assaporarne il profumo della salsedine che riempie l’aria che ti circonda. Quando si viaggia qui non esiste la meta, esiste solo il viaggio.

Dalla finestra entra una luce violenta e calda. Guardo fuori, l’acqua del fiordo é immobile, trasparente, fredda come la neve che ancora resiste sulle montagne nonostante l’aumento della temperatura globale. Aspetto prima di uscire, leggo, scrivo, prendo appunti. Poi salgo sulla barca: una vecchia barca da pesca che qui usano per portare in giro i visitatori. Durante il viaggio, vicino a noi, un’aquila prende un pesce per portarselo chissà dove. Riesco a cogliere l’attimo con una fotografia che mi ricorderò per sempre. Al rientro la giornata non finisce: salgo sulla cima della montagna per guardare il paesaggio. Ancora emozione. Bellezza.

A Tromsø in questa stagione non viene mai notte. Il sole tramonta, per qualche ora, ma la luce non se ne va mai, come nel resto di questa regione aspra. Una regione inospitale per molti. Ma non per chi sa apprezzarla ed amarla. Il silenzio, la natura violenta e invadente, l’aria tersa e pungente che si percepisce come fosse terra, o acqua, o pietra. Le case in questa città sono di legno, alcune, altre moderne e a volte avveniristiche. L’uomo ha lavorato per conquistare queste terre estreme, ed in ogni sua opera si coglie l’orgoglio della conquista.

Brixton é un quartiere malfamato di Londra.
In un cassetto ho ritrovato queste fotografie che feci tanti anni fa, quando stavo in quella città che amo tutt’ora, una città dalla quale non riesco a stare distante a lungo.
É passato tanto tempo, ma quella bambina bellissima me la ricordo ancora. Oggi la mamma mi avrebbe detto di non fotografarla per la privacy, perché ci sarebbe stato qulcuno pronto a dire che ne avrei fatto chissà quale uso. Io invece sono contento di farvela vedere perché ha uno sguardo da guerriera che é difficile da dimenticare.

Chissà che cosa sarà diventata oggi?

A Genova c’è il porto. Nella sua storia sono arrivate milioni di persone, da tutte le parti del mondo. Alcuni solo di passaggio, altri si sono fermati. Questo ci ha resi tutti i meticci. Persone Ibride. In dialetto qui il pomodoro si chiama Tomata e il carciofo Ardiciocca, proprio come in inglese Tomato e Artichoke. Da noi quando c’è confusione diciamo che c’è un Ramadan, i famosi Camalli hanno rubato il nome dall’arabo Hamal. Ma siamo sempregenovesi, con il nostro carattere burbero e scontroso. Uomini e donne capaci di ripartire quando crolla un ponte, quando ci devasta un’alluvione o quando il mare distrugge il lavoro di tanti anni. Spesso senza chiedere aiuto, perché siamo fatti così. Perché questa è la nostra storia. Ed è quello che ci hanno insegnato.
E io oggi dovrei aver paura di 17 bambini, 23 donne e 60 uomini che arrivano da chissà dove?
Che cosa farebbe mio nonno se glielo raccontassi? Riderebbe di me, ecco che cosa farebbe.
Oggi i nostri politici vengono da fuori e non conoscono la nostra storia. Dovrebbero parlare con i nostri vecchi, con chi ha combattuto davvero per la libertà. Gli spiegherebbero che 100 “neri” non ci fanno paura. Gli risponderebbero che qui a Genova ne abbiamo visti di tutti i colori, bianchi gialli, neri, …birulò, per dirlo in dialetto. Parlerebbero senza dare importanza al politico di turno, continuando a lavorare perché il tempo non si deve sprecare. Ma gli direbbero anche di non farli scappare, perché 100 migranti ci servono, perché a Genova c’è sempre da fare. E 100 sono anche pochi.

Era il 2008. Da meno di un anno ero tornato ad abitare a Camogli, in una vecchia casa in Via della Repubblica. Dalle mie finestre non si vedeva il mare, così, quella mattina, uscii poco dopo l’alba come sempre, come se niente fosse. Ero abituato: mi piaceva respirare il profumo della luce azzurra del mattino.
Ma quel giorno era diverso. L’atmosfera era strana, la luce non era la stessa di sempre e il gusto della salsedine entrava nei polmoni riempiendoli di un sapore acre, penetrante, forte. In lontananza, il suono rauco del mare superava la barriera di case medievali con il suo ritmo lento e costante.
Capii subito che cosa stava accadendo. Tornai a casa, presi Victor, così chiamavo la mia macchina fotografica allora, e scesi sul lungomare, o su quello che ne era rimasto. Lo spettacolo era devastante. Non esisteva più la spiaggia, la passeggiata che avevo percorso la sera prima era completamente sommersa, le onde gigantesche colpivano con una violenza inaudita il campanile di Santa Maria Assunta e la torre del Castello della Dragonara.
Solo la bandiera resisteva. Sulla sommità della torre quel piccolo pezzo di stoffa bianca e rossa si opponeva alla furia del vento che stava devastando la città. Io la guardavo; la osservavo fissa mentre scendevo le minuscole scale a pioli sotto gli spruzzi violenti del mare in tempesta. Ero solo ed avevo paura, una paura che non mi faceva sentire il freddo dell’acqua e il rumore delle barche che sbattevano sugli scogli. Ma volevo cogliere quel momento, sicuro che lo avrei ricordato per sempre.
Ancora oggi guardo queste fotografie e sento nei polmoni il gusto della salsedine, il respiro delle onde. Ancora oggi rivedo quella bandiera e penso che la mareggiata del 30 ottobre del 2008 non è stata la prima e non sarà l’ultima, ma che Camogli resisterà per sempre.