Questa è la mia casa. La mia casa in montagna: un luogo nel quale mi rifugio ogni volta che desidero allontanarmi da quella realtà quotidiana che a volte ci pesa e sento il bisogno di circondarmi delle cose che amo, dei miei ricordi, di tutto ciò che mi fa star bene. Per questo motivo è anche protagonista di alcuni capitoli del mio romanzo “Le risposte che non so darti”, perché per me è un luogo di sogno che ti resta nel cuore e che mi descrive completamente. Ma questa casa non è una baita, è un appartamento in un condominio che ho ristrutturato pensando alla mia idea di casa in montagna: un luogo caldo, avvolgente, un rifugio capace di avvolgermi e di darmi la pace di cui ho bisogno in certi momenti. Così ho rivestito alcune pareti con un tessuto che adoro, ho costruito personalmente le librerie in legno, ho colorato le pareti e il soffitto con un colore caldissimo, un colore che fa sentire il calore del sole sulla pelle. Ma ho usato anche la tecnologia: un sofisticato sistema di illuminazione a led e una domotica wireless che rende la casa intelligente, che mi consente di controllare il riscaldamento a distanza, di “prepararla” quando la sto raggiungendo per farla trovare come desidero, di modificare l’atmosfera a seconda delle ore del giorno e degli ospiti che ricevo. Amo questa casa. E’ il mio rifugio in montagna.

Hanno tre bambine bellissime, ma il matrimonio non funziona più. Discutono, litigano, non riescono a ricostruire l’amore che li ha uniti quando si sono conosciuti. Zinaida, Zina per gli amici, decide di lasciarlo e di trasferirsi poco distante, a casa dalla sorella che l’accoglie insieme alle tre bambine. Maurizio non è d’accordo. Non riesce a rassegnarsi all’idea di perdere la moglie e le figlie, di vederli andare via. Così una sera decide di aspettarla davanti a casa, davanti a quella nuova casa nella quale lui non può entrare. Sono le 22.00, l’uomo parcheggia la Peugeot ed aspetta che Zina torni dal ristorante. Quando lei arriva non le lascia il tempio di parlare, la uccide con due coltellate, una al petto e una alla gola. A sangue freddo, mentre le bambine dormono in casa senza accorgersi di nulla. Poi scappa. I vicini sentono i rumori, le urla concitate, le grida di Zina e chiamano il 118, ma non c’è nulla da fare.

Maurizio ha compiuto l’ennesimo femminicidio, un altro delitto che si aggiunge al numero di donne uccise da uomini che non comprendono che cosa sia l’amore, che non sanno costruire un rapporto, che non hanno imparato nulla della vita.
L’ho scritto altre volte: non basta che le istituzioni dicano che questi omicidi debbano finire, che le donne protestino, che si facciano manifestazioni di solidarietà. Chi deve fare qualcosa non sono le donne, ma gli UOMINI. Siamo noi che dobbiamo impegnarci a cambiare una cultura, ad insegnare ai nostri figli che l’uomo non è “forte” e la donna non è un suo possesso, che dobbiamo rifiutare anche le più piccole manifestazioni sessiste se vogliamo che tante altre donne non facciano la fine di Zina.
Ma dobbiamo essere in tanti: tanti uomini coraggiosi e capaci di ribellarsi e di dire IO NO. Io non uso un linguaggio sessista, io non insegno a mio figlio che le donne non devono vestirsi da maschiacci, io non dico a una donna che è acida perché non scopa, io non penso che esistano lavori da maschi e altri da femmine, io non accetto che un presentatore televisivo con la cravatta abbia al fianco una valletta in costume, …

Io dico NO, e vi chiedo di aiutarmi in questa battaglia condividendo il più possibile questo post perchè solo cambiando poco a poco una cultura dilagante in Italia, riusciremo a costruire una società più giusta per il futuro dei nostri figli.

24 agosto 2019 – Sono passati tre anni. Ho ancora davanti agli occhi le immagini del terremoto del 24 agosto e del 26 ottobre 2016, di quelle piccole comunità devastate da un sisma che le avrebbe cambiate per sempre. Alcune di queste hanno nomi oramai conosciuti da tutti: Amatrice, Norcia, Accumuli. Altre no. Sono le località più difficilmente raggiungibili perché nascoste dalla maestosità dei Monti Sibillini. Di queste non si legge sui giornali, non si parla nei dibattiti. Si chiamano Visso, Ussita, Arquata del Tronto, Castelsantangelo sul Nera e tante altre. Qui non sono arrivati i giornalisti, le televisioni. Per rendersi conto del loro dramma occorreva andare di persona e inerpicarsi per strade tortuose se si voleva capire la vera dimensione del dramma di chi aveva trascorso una vita in quelle zone impervie. Da allora è stato fatto molto per la ricostruzione, sono state ricostruite scuole, infrastrutture, edifici pubblici, molte case private sono in fase di realizzazione, anche se naturalmente c’è ancora molto da fare. Ma la cosa più difficile è ricreare la comunità degli abitanti, prima ancora di ricostruire gli edifici crollati. E questa si ricostruisce con la solidarietà, quella solidarietà che per l’Italia oggi è una necessità vitale

A Sommarøy tutto é bianco, anche d’estate. Un immenso fondale fatto di mare, cielo, luce e riflessi mette in primo piano gli oggetti che devi guardare. Un magazzino in legno rosso sospeso sull’acqua, la barca che si allontana veloce, i gabbiani neri che attendono il suo ritorno, il ponte in cemento che porta a quest’isola astratta. A Sommarøy non esiste il tempo, la luce cambia così lentamente da non farti capire se é mattina, sera o notte. Chi abita qui lo sa e non usa l’orologio, ha dimenticato il trascorrere delle ore, o forse ha semplicemente deciso di non essere schiavo del tempo che passa.

Dalla natura selvaggia di Lemmenjoki alla natura domata di Yggdrasiltunet, Norway. Il viaggio é lungo, in tutti i sensi. Tieva é la casa sul fiume, la sauna che ti riscalda dal freddo polare, il rifugio dalla brutalità che a volte la natura sa dimostrare. La fattoria in Norvegia é tutt’altro. É quanto di piu evoluto e raffinato si possa immaginare nel contatto con la terra, con gli animali, con gli elementi naturali. Qui tutto é sereno, tranquillo, amichevole. In mezzo c’è un viaggio. 600 km che ti accompagnano attraverso scenari che vorresti portare sempre con te, paesi dai nomi profondi come l’oceano, montagne dipinte da pennellate di luce, panorami in cui il cielo é protagonista assoluto. Questa é l’essenza del grande nord.

Tanti anni fa nelle giornate come oggi, si scrivevano le cartoline. La pioggia ci faceva andare nel bar del campeggio o a casa di un amico dopo averle scelte con attenzione, facendo in modo che ‘assomigliassero’ un po’ al destinatario prescelto. Alcune erano fotografie incorniciate, altre erano divise in tre o in quattro, altre portavano la scritta ‘Saluti da…’. Io avevo qualche amico che scriveva così tanto da occupare tutto lo spazio bianco e andare oltre, qualcun altro al massimo riusciva a dire due parole, poi c’era anche chi non sapeva mai cosa scrivere e chiedeva consigli al vicino. Ma era sempre un’emozione, un fremito che ci faceva pensare a qualcuno distante da noi in quel momento. Io oggi vorrei mandare a tutti voi una cartolina con la stessa emozione di allora, scegliendo anche il francobollo più adatto e mettendola nella cassetta rossa delle lettere mentre penso a quanto tempo ci metterá per raggiungervi. Una cartolina col le immagini di una giornata di pioggia sul fiume Lemmenjoki.

Ogni volta risalgo questo fiume come se fosse la prima. All’inizio ancora qualche casa, nascosta tra gli alberi, poi più nulla. Solo alberi che si specchiano sul fiume apparentemente immobile, sotto un cielo che qui sa essere candido come la neve d’inverno. Conosco ogni ansa, ogni insenatura, ogni piccola isoletta che segna il percorso ma ogni volta c’è qualcosa di diverso: l’acqua é più alta, un fulmine ha spezzato un albero, il vento ha spostato la sabbia di un approdo naturale. Sul Lemmenjoki non c’è niente da fare, tutto questo ti fa dimenticare da dove vieni, che cosa hai lasciato dietro di te. Puoi solo immergerti nella bellezza, respirare il profumo del fiume che ti sostiene, guardare il cucciolo di renna che ti osserva tra gli alberi senza paura, stare in silenzio e pensare. In armonia con il mondo che ti circonda.

I mille chilometri di oggi sono stati lunghi, anche se non troppo faticosi. Ma finalmente rivedo il Lemmenjoki e la casa che amo. Il panorama é diverso, non più le rocce aspre a strapiombo sull’Atlantico delle Lofoten, ma sinuose onde di terra ricoperte da foreste di betulle e abeti che si specchiano su questo fiume immobile che scorre erratico a nord della Finlandia. La mia casa mi accoglie così: in silenzio, come se non me ne fossi mai andato. Mi sembra che sorrida al mio ritorno e mentre penso quest’assurditá sono io che sorrido, felice di essere tornato da lei.

All’estremità sud delle isole Lofoten c’è Å: un minuscolo villaggio di pescatori costruito tra le montagne e il mare. Le case sono piccole, di legno tinteggiato di rosso e di giallo, ancorate alle rocce sull’Atlantico o sospese su lunghe gambe che affondano nella marea che qui fa paura. Di giorno sembra un paese fantasma, le barche sono fuori, gli uomini in mare, restano le donne a casa ad attendere il loro ritorno serale. É il loro modo di vivere, un rituale sempre uguale a sé stesso che si ripete da sempre in modo costante. Immutabile. Oggi il turismo lo sta cambiando poco a poco, e in fondo sta facendo perdere qualcosa a loro e a noi viaggiatori.

Esistono terre capaci di fermarti, di abbracciarti, di prenderti per mano ed insegnarti a respirare la loro l’armonia. Lofoten é una di quelle. Muoversi da un’isola all’altra seguendo le strade tortuose, affondando nei tunnel sotto il mare o semplicemente passeggiando nei minuscoli villaggi di pescatori é come entrare nel loro cuore per sentirsi protetti, accuditi, felici. Proprio come mi sento io tutte le volte che scopro qualcosa in più di Lofoten.